Trasferimento aziendale rifiutato, scatta il licenziamento senza validi motivi

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Roma, 23 nov. (Claudio Garau, Qui Finanza) - Viviamo nell’epoca della flessibilità lavorativa, in una fase in cui chi viene assunto deve dimostrare di adattarsi meglio e più velocemente alle eventuali mutate richieste dell’azienda, per crescere professionalmente, fare carriera e ambire a uno stipendio più alto. Ma attenzione, perché flessibilità significa anche adeguarsi alla decisione di essere trasferiti a lavorare altrove, in un’altra sede aziendale.

Ricevere una comunicazione aziendale che annuncia lo spostamento lavorativo in un’altra città, per svolgervi le mansioni contrattuali, è sempre un momento delicato.

Uno scossone alla più o meno tranquilla routine quotidiana. Possono subentrare agitazione, dubbi sul mutuo, sulla scuola dei figli o sull’assistenza ai familiari anziani. La tentazione di dire “non posso spostarmi” è comprensibile. Con la pronuncia n. 22341 del 6 novembre scorso, la Cassazione ha però chiarito che non basta invocare motivi generici per opporsi al trasferimento di sede di lavoro: servono prove precise. Altrimenti il concreto rischio è perdere il posto. Vediamo perché.

Il licenziamento per rifiuto di trasferimento di sede di lavoro
Come si può leggere nel testo della decisione della Suprema Corte, che richiama i fatti di causa, al centro della disputa giudiziaria era una lavoratrice impiegata presso una società energetica, che chiudeva la sede di Roma per trasferire l’attività in Basilicata.

La donna si oppose allo spostamento di luogo di lavoro, sostenendo di avere oggettive ragioni familiari. Tuttavia non fornì dettagli o documenti che giustificassero concretamente la sua effettiva impossibilità di muoversi, tramite pendolarismo o modifica della residenza. 
Dopo 5 giorni di assenza ingiustificata, la società datrice le inflisse il licenziamento disciplinare, poi impugnato dalla donna in tribunale.

Tuttavia, sia in primo che in secondo grado, l’esito fu lo stesso: conferma della correttezza dell’espulsione e della fondatezza delle ragioni del datore di lavoro. La disputa non si arrestò ma proseguì presso i giudici di piazza Cavour, con apposito ricorso della dipendente.

Il principio di giuridico su buona fede e onere della prova

Sostanzialmente niente cambiò al termine del giudizio di legittimità. Ricostruendo il ragionamento logico-giuridico contenuto nella contestata sentenza d’appello, la Suprema Corte ne riconobbe la correttezza tecnica e la piena aderenza ai fatti accertati. La conseguenza fu la bocciatura del ricorso in Cassazione, a cui si accompagnò l’indicazione di un principio chiave:
* se la sede di lavoro originaria non esiste più, l’obbligo di dimostrare l’impossibilità del trasferimento grava sul lavoratore, non sull’azienda;
* la prova da parte del lavoratore deve fondarsi su buona fede e su circostanze impeditive concrete (art. 1460 Codice Civile).

In termini pratici, questo significa che il dipendente può opporsi al trasferimento, soltanto se dimostra che il suo no al datore è motivato da ostacoli concreti e documentabili. Non basta dire che si hanno generici problemi familiari (come figli piccoli) o invocare generici ostacoli al trasferimento (come i costi di viaggio o l’affitto di un nuovo appartamento).

La buona fede è determinante per il prosieguo del rapporto ed è valutata dal giudice, considerando gli interessi dell’azienda e le esigenze personali e di vita del dipendente. In questo caso, la dipendente non si era comportata secondo buona fede e con spirito collaborativo nella volontà di proseguire il rapporto di lavoro.

Il giudice deve bilanciare gli interessi aziendali e del lavoratore
L’appena citato bilanciamento degli opposti interessi andrà svolto dal magistrato, caso per caso. Nella vicenda in oggetto, l’azienda aveva motivi palesi e incontestabili per chiedere al suo dipendente di andare a lavorare altrove: infatti, erano stati chiusi i cancelli della sede di Roma e, soprattutto, non esisteva altra alternativa locale. Perciò, il trasferimento era stato correttamente spiegato e documentato da esigenze organizzative reali, logistiche e non rinviabili.

Di fronte a questa situazione, la lavoratrice doveva dimostrare – in modo preciso – quali ostacoli concreti le impedissero di andare a lavorare in un’altra città, come ad esempio l’impossibilità verificata di trovare soluzioni per la cura dei figli o di familiari anziani, oppure la presenza di problemi di salute o la necessità di assistenza medica specifica. Ma questa prova non era stata data.

Conseguentemente, la sentenza n. 29341/2025 – nel respingere il ricorso della donna – ha messo in chiaro che, senza elementi tangibili, documentati e circostanziati, il no al trasferimento equivale – in sostanza – a un “abbandono” del posto di lavoro. Un comportamento che può giustificare, quindi, il licenziamento disciplinare.

Che cosa cambia per dipendenti e lavoratori
Quella dei licenziamenti impugnati in tribunale è una materia incandescente e ricchissima di contributi della giurisprudenza, si pensi ad es. alla recente decisione in merito all’espulsione dall’azienda per attività fisica o alla pronuncia relativa alla nullità del recesso unilaterale per vendetta.

Questa sentenza della Cassazione ribadisce un principio chiaro: a parità di mansioni svolte, non basta invocare motivi generici (familiari od organizzativi) per rifiutare un trasferimento, anche a centinaia di chilometri di distanza. La buona fede sarà valutata discrezionalmente dal giudice e sulla scorta di tutti gli elementi concreti emersi. Potrà, quindi, anche essere una sorta di boomerang per il dipendente, poco preciso o attento nell’indicare i motivi di rifiuto al trasferimento.

Al contempo, la decisione in oggetto invita, dove possibile, a valutare con prudenza e comprensione le eventuali circostanze di ostacolo evidenziate dal dipendente, verificando se, alla luce di un approfondito esame della situazione, esistano soluzioni alternative per conciliare esigenze aziendali e personali. Ma, in linea di massima, le conseguenze disciplinari, in casi analoghi a quello appena visto, sono giustificate e legittime.

Da: https://quifinanza.it/lavoro/

Fonte foto: Libero quotidiano