Roma, 14 lug. (Federico Bardanzellu, InLibertà) - Salari reali. L’Annuario 2025 dell’Ocse ha reso noto che i salari in Italia, ad inizio 2025, sono scesi del 7,5% rispetto al 2021. È il calo più significativo dei salari reali tra tutte le principali economie dell’Ocse, a partire dall’inizio della pandemia da Covid-19. Ma sono 25 anni che i salari in Italia crescono meno che negli altri Paesi Ocse. Rispetto al 2008 (anno d’inizio di un’altra crisi economica) il calo è stato dell’8,7%.
Tuttavia, prosegue l’Ocse, nel 2025 i salari nominali in Italia dovrebbero aumentare del 2,6% e, nel 2026, del 2,2%. Questi aumenti saranno peraltro penalizzati dall’inflazione che dovrebbe raggiungere il 2,2% nel 2025 e l’1,8% nel 2026. Dovrebbero quindi garantire ai lavoratori italiani soltanto guadagni molto modesti in termini reali. In ogni caso significativamente inferiori rispetto alla maggior parte degli altri paesi dell’Ocse. Tutto ciò, nonostante la sbandierata crescita economica e dell’occupazione.
Secondo gli imprenditori il basso dato dei salari dipende dalla scarsa produttività
Gli imprenditori si fanno scudo con un’asserita scarsa produttività del lavoro in Italia. Sostengono che non possono aumentare i salari più di quanto aumenti la produttività. Diversamente i profitti diminuirebbero oltre misura e, corrispondentemente, gli investimenti. I dati ufficiali conforterebbero la tesi della parte datoriale. Indicano infatti che, già a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, la crescita della produttività in Italia è inferiore rispetto agli altri paesi del G7.
Tuttavia, non è detto che tale bassa produttività debba addebitarsi esclusivamente ai lavoratori. Può dipendere anche dalla scarsa capacità organizzativa o imprenditoriale della parte datoriale. La produttività relativamente bassa dell’Italia, inoltre, non sempre significa una bassa produzione in termini di PIL. Almeno secondo quanto dichiarato L’11 giugno scorso dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, in videoconferenza, all’Assemblea generale di Confcommercio.
Meloni ha comunicato i seguenti di dati positivi: «Nel primo trimestre di quest’anno il PIL è cresciuto dello 0,3 per cento rispetto al trimestre precedente e dello 0,7 per cento rispetto al primo trimestre del 2024, facendo meglio di Francia e di Germania». Peraltro la Spagna (quarta economia UE) – aggiungiamo noi – ha fatto qualcosina di più. Un incremento dello 0,6% rispetto al trimestre precedente.
Basso incremento dei salari pur in presenza di una buona crescita del PIL
Se guardiamo, comunque, l’andamento dell’ultimo quadriennio, i dati della crescita del PIL in Italia non sembrano del tutto sconfortanti. Secondo l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, infatti, nel biennio 2021-22 l’Italia registrò una crescita superiore alla media di eurolandia. In particolare, rispetto alla crescita delle più forti economie, Spagna compresa.
Nel 2023, tale crescita è diminuita (+ 0,7%) ma è risultata ancora sopra la media dell’area euro. Solo nel 2024 siamo scesi al di sotto: +0,7% per l’Italia, contro +0,9% di eurolandia. Contemporaneamente la Francia ha registrato un +1,2% e la Spagna addirittura un +3,2%. Ma la Germania, con la quale siamo economicamente più collegati ha registrato addirittura un -0,3% nel 2023, per risalire soltanto al +0,2% nel 2024.
Altri dati significativi
Per comprendere meglio la situazione, facciamo ricorso a un altro dato significativo. Il tasso di occupazione in Italia rimane sensibilmente inferiore alla media Ocse (62,9% rispetto al 70,4% nel primo trimestre del 2025)”. Almeno secondo quanto risulta dai dati ufficiali. C’è però un iceberg di cui si intravede solo la punta e che continua a sfuggire a tutte le rilevazioni. Quello del lavoro nero e sfruttato. Sappiamo che riguarda soprattutto i giovani lavoratori e gli immigrati irregolari. Ma a quanto ammonta?
Nel nostro panorama economico, ci sono inoltre altri due dati sorprendenti. Il primo, che in Italia più di un milione di offerte di lavoro rimangono inevase. Nel nord-est quasi un posto su due. Trattasi soprattutto di offerte riguardanti i lavoratori specializzati. Ma anche i medici generici e gli ingegneri elettronici e delle telecomunicazioni. In teoria ciò significa che il sistema scolastico/universitario italiano presenta delle distorsioni. Cioè che i percorsi formativi che dovrebbero “sfornare” lavoratori specializzati o le figure professionali più ricercate non attraggono sufficientemente i giovani.
C’è però un secondo dato che contraddice il primo. In tredici anni, dal 2011 al 2023, 550 mila giovani italiani di 18-34 anni sono emigrati all’estero. Al netto dei rientri, il dato è pari a 377 mila (Dati CNEL). Il 33% dei giovani espatriati ha intenzione di rimanere all’estero. Perché lì ha trovato migliori opportunità lavorative (25%), di studio e formazione (19,2%) o una qualità della vita più alta (17,1%). Solo il 10% considera il salario più elevato come principale ragione per l’espatrio. Il 51% espatriati sta ancora valutando se rimanere all’estero o tornare in Italia. Solo il 16% ha dichiarato di essere sicuro di rientrare prima o poi in Patria.
Salari reali bassi, da che dipende?
Tentiamo allora di far sintesi. Ci troviamo in presenza di un’economia (quella italiana) con l’incremento dei salari reali più basso della zona Ocse. Anzi, negli ultimi quattro anni, addirittura in decremento. I bassi salari sono una delle motivazioni sufficienti a spiegare perché circa un milione di offerte di lavoro, in Italia, rimangono inevase. Non la motivazione della poca qualificazione o specializzazione della forza lavoro. Questa, infatti, non spiegherebbe perché centinaia di giovani italiani cercano (e trovano) lavoro all’estero.
Sappiamo però che una quota significativa (anche se di difficile commisurazione) della forza lavoro italiana, è occupata in nero. In tal caso, percependo salari ancora più bassi degli occupati con regolare contratto, che non sfuggono alle statistiche. Tale bacino non è formato soltanto da lavoratori immigrati irregolari. Ma anche da giovani (e questo spiegherebbe anche il dato dell’invecchiamento della forza lavoro regolare). Sono coloro che una ministra di alcuni anni fa definì “i bamboccioni”. Una numerosa platea che preferisce vivere a carico della famiglia di origine, accettando soltanto lavoretti part-time o sottopagati. Magari per non perdere sussidi di disoccupazione o contributi per figli a carico, da parte dei genitori.
Per concludere come ci ha insegnato Adam Smith, anche in questo caso è la legge della domanda e dell’offerta a formare la retribuzione. In Italia i salari sono bassi perché esiste un esteso bacino di lavoratori che accetta salari ancora più bassi. Le statistiche rilevano solo il risultato di tale processo, perché il dato di tale platea di irregolari non emerge. Diversamente, non si chiamerebbero “lavoratori in nero”.
Da:www.inliberta.it