
Roma, 24 mag. (Mauro Di Gregorio, Qui Finanza) - Avere un’occupazione fissa da anni, magari un lavoro a tempo pieno e indeterminato, e avere comunque difficoltà nell’arrivare a fine mese. È un destino comune a molti italiani, quelli che nelle statistiche vengono definiti “lavoratori poveri” e che sono finiti al centro del braccio di ferro fra opposizioni, che vorrebbero il salario minimo per legge, e maggioranza, che delega la questione alla contrattazione collettiva.
Nel 2023, l’Italia si è confermata uno dei Paesi europei con la più alta incidenza di lavoratori poveri. È quanto emerge dallo studio della Cgil intitolato “La questione salariale e le basse retribuzioni in Italia”, a firma dell’economista Nicolò Giangrande.
Il lavoro povero in Italia
I numeri: quasi 10 milioni di lavoratori dipendenti del settore privato percepiscono meno di 25.000 euro lordi l’anno, e oltre 6 milioni si fermano sotto i 15.000 euro (praticamente 1.000 euro netti al mese). Il 13,6% (2,36 milioni di lavoratori) si ferma addirittura sotto i 5.000 euro. Ma dietro queste cifre si nasconde una realtà strutturalmente precaria, che va ben oltre il semplice divario retributivo. I dati dimostrano che la povertà lavorativa in Italia, ormai, non è un’eccezione ma un fenomeno sistemico.
Il concetto di “lavoro povero” – ovvero l’avere un’occupazione ma non un reddito sufficiente a condurre una vita dignitosa – è sempre più centrale nel dibattito italiano. Secondo i dati Eurostat riportati nello studio, nel 2023 il 9,9% degli occupati italiani rientra in questa categoria, contro una media Ue dell’8,3%. Praticamente, in Italia 1 lavoratore su 10 è povero.
Le cause del lavoro povero
Le cause sono molteplici e fra loro interconnesse:
* contratti a termine;
* part-time involontari; salari orari troppo bassi;
* scarsa qualificazione professionale;
* ritardi nei rinnovi contrattuali;
* struttura produttiva che premia la competizione sui costi piuttosto che sulla qualità.
I dati elaborati dall’Inps relativamente al salario lordo annuo medio in Italia nel 2023, sui quali si basa l’analisi Cgil, fotografano la situazione con spietatezza chirurgica:
* tempo indeterminato – 28.540 euro;
* tempo determinato (inclusi stagionali) – 10.302 euro;
* full time – 29.508 euro;
* part time 11.785 euro;
* tempo determinato + part-time 7.100 euro;
* media generale 23.662 euro.
Il salario medio, viene specificato, è cresciuto del +3,5% rispetto al 2022, ma resta al di sotto del tasso di inflazione registrato nel 2023 (+5,9% secondo l’indice Ipca), determinando una perdita di potere d’acquisto reale. In pratica, anche se i salari sono cresciuti, i prezzi dei beni e dei servizi sono aumentati molto di più.
La Cgil aggiunge che il part-time involontario in Italia ha raggiunto il 54,8% nel 2023, la percentuale più alta dell’Eurozona e la seconda nell’Unione europea. Si tratta di persone che sarebbero anche disponibili a lavorare di più, ma non trovano alternative. Contestualmente, l’83,5% dei rapporti di lavoro cessati ha avuto durata inferiore a 1 anno, e il 51% è durato meno di 3 mesi. Dati che fanno capire come i numeri sulla crescita dell’occupazione in Italia non solo vanno letti, ma vanno anche interpretati e compresi. In vent’anni (2004-2023), gli occupati a tempo determinato sono aumentati di oltre un milione di unità.
Il nodo della retribuzione oraria
Un altro fronte critico è la retribuzione oraria. Secondo le stime dell’Inps riferite a ottobre 2023 circa 2,8 milioni di lavoratori del settore privato hanno percepito meno di 9,5 euro lordi l’ora. Tolti coloro temporaneamente assenti dal posto di lavoro (per maternità, malattia o cassa integrazione) 2,4 milioni rientrano in una condizione strutturale di bassa retribuzione oraria. Queste le categorie che soffrono maggiormente:
* apprendisti;
* lavoratori a tempo determinato;
* addetti di piccole imprese;
* lavoratori part-time;
* stranieri.
Da: https://quifinanza.it/lavoro/
Fonte foto: Sole 24 Ore