Il carico di lavoro eccessivo non è mobbing: lo dice la Cassazione

mobbing_cassazione

Roma, 12 lug. (Claudio Garau, Qui Finanza) - Con quali comportamenti si manifesta il mobbing sul lavoro? La giurisprudenza in materia di atti persecutori da parte di colleghi, superiori o datori di lavoro è molto ampia: comprende numerose sentenze che aiutano a fare chiarezza e a capire quando un dipendente può tutelarsi in tribunale e chiedere un risarcimento.

Di recente, la Corte di Cassazione è tornata ad affrontare il tema. Con la sentenza n. 14890 ha precisato che non si configura mobbing quando l’azienda “carica” il personale di lavoro, a patto che siano rispettate alcune condizioni ben definite, tali da fugare ogni dubbio.

Nel prosieguo vedremo quali sono queste condizioni e perché la decisione della Suprema Corte rappresenta un punto di riferimento utile per capire quando, anche in presenza di forte stress lavorativo, non si può parlare di mobbing.

Il caso concreto: perché non si tratta di mobbing

I ritmi di lavoro possono essere molto sostenuti, e in alcuni settori si registrano veri e propri picchi stagionali, legati all’aumento di clienti, ordini o altre variabili. In questo contesto, un dipendente ha citato in giudizio la propria azienda, sostenendo di essere vittima di mobbing o, in alternativa, di straining (una forma attenuata del fenomeno).

Durante il processo, i giudici – dopo aver ricostruito fatti e comportamenti – hanno stabilito che il datore di lavoro non aveva commesso alcuna irregolarità nell’imporre carichi e responsabilità tali da rendere le attività giornaliere particolarmente intense. In particolare, ai dipendenti veniva richiesto di raggiungere obiettivi più ambiziosi sul piano delle vendite. Secondo la magistratura, si trattava di scelte organizzative e produttive perfettamente legittime, rientranti nel potere direttivo, organizzativo e di controllo dell’imprenditore, come previsto dagli articoli 2086 e 2104 del Codice Civile.

In sostanza, il datore di lavoro non commette alcun illecito se punta a migliorare la produttività e la gestione dell’impresa, anche a costo di richiedere un impegno maggiore. Lo stress che ne deriva, quindi, non rappresenta di per sé mobbing: non c’era, secondo i giudici, un intento deliberato di affaticare il personale, ma semplicemente una conseguenza dell’attività stessa, accettata dal lavoratore al momento della firma del contratto. L’organizzazione gerarchica e i carichi di lavoro, del resto, erano noti sin dall’inizio al dipendente, consapevole delle richieste che l’incarico avrebbe comportato. Per questo, l’azione legale si è conclusa con un esito negativo e il lavoratore ha deciso di ricorrere in Cassazione.

La decisione della Cassazione e l’onere della prova
I giudici di Piazza Cavour hanno confermato quanto stabilito nei precedenti gradi di giudizio. Secondo la Cassazione, un lavoro impegnativo che richiede molte energie fisiche e mentali, anche se può portare ad affaticamento, non costituisce automaticamente mobbing, né rappresenta una condotta mirata a penalizzare un determinato dipendente.

La Corte ha ribadito la validità dell’iter logico-giuridico seguito nei precedenti giudizi e sottolineato come la consapevolezza, da parte del lavoratore, della natura impegnativa dell’impiego escluda la responsabilità del datore. Attenzione però: il carico di lavoro non deve diventare estremo o disumano, altrimenti si può parlare di mobbing. Ma la prova del danno spetta al lavoratore, che deve dimostrare:
* di aver subito un danno (anche con documentazione medica);
* la nocività dell’ambiente lavorativo;
* il nesso causale tra il danno e le condizioni lavorative.

Solo se queste circostanze risultano provate, sarà l’azienda a dover dimostrare:
* di aver adottato tutte le misure necessarie per prevenire il danno;
* che il problema del dipendente non è legato a omissioni o negligenze aziendali.
Nel caso specifico, il dipendente non era riuscito a dimostrare quanto richiesto, limitandosi a denunciare genericamente un ambiente fonte di affaticamento, senza fornire elementi concreti a sostegno della propria tesi. Di conseguenza, anche la Cassazione ha rigettato il ricorso.

Che cosa cambia con questa sentenza

La sentenza n. 14890/2025 ha sancito un principio importante: se un dipendente conosce bene le caratteristiche e l’impegno richiesto dal lavoro, e ha firmato un contratto che le contempla, non può poi sostenere di essere vittima di mobbing solo per via dell’intensità dell’attività svolta. È una regola di buon senso, che presuppone l’esistenza di obiettivi di produttività ben definiti e di una strategia per raggiungerli, basata sul massimo impegno da parte di tutti i lavoratori. Detto altrimenti: l’affaticamento rientra nella normale prestazione lavorativa. Un’attività impegnativa non equivale a vessazione, ma riflette semplicemente le mansioni previste dal contratto individuale e dal Ccnl.

Se il lavoratore riteneva eccessivi i ritmi proposti, avrebbe potuto non accettare l’impiego o rifiutare la firma del contratto, piuttosto che contestare successivamente la linea aziendale. La sentenza in esame si inserisce perfettamente nel solco tracciato da precedenti giurisprudenziali in materia. Basti pensare ad altri casi in cui si è escluso il mobbing, anche a fronte di situazioni di forte pressione lavorativa.

Una decisione che può fare scuola
Le conclusioni della Cassazione possono trovare applicazione in molti casi pratici. Si pensi, ad esempio, al dipendente di un call center che, dopo un mese di attività con centinaia di chiamate giornaliere, denuncia mobbing oppure al collaboratore di uno studio professionale che si ritiene vittima di vessazioni per via della mole di fascicoli e degli straordinari richiesti.

Se il contratto di lavoro prevede attività intense, non si può chiedere un risarcimento per atti persecutori. E anche in presenza di problemi di salute legati allo stress, la causa non può essere individuata automaticamente nel carico di lavoro, ma va cercata in fattori ulteriori e specifici. È per questo che la decisione della Cassazione interessa la generalità delle aziende e dei datori di lavoro, che grazie a questo orientamento giurisprudenziale risultano oggi più tutelati.

Da: https://quifinanza.it/lavoro/

Fonte foto:  Ancitel