Museo dei dolmen. Genti smarrite dell’antica Europa

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San Mauro Torinese, 23 mag. (Harald Haarmann e Mariagrazia Pelaia, Prometeo per Preistoria in Italia) - Alla scoperta dell’Antica Europa. Nella prefazione alla sua opera fondamentale intitolata The Civilization of the Goddess (1991; trad. it.: La civiltà della Dea, 2012-13), Marija Gimbutas, di cui ricorre quest’anno (2021) il centenario della nascita, incluso nei festeggiamenti ufficiali Unesco per il 2020-21, riassume l’aspetto essenziale di tutto il suo progetto accademico al fine di mettere in evidenza gli strati più profondi della storia europea, che custodiscono i componenti costitutivi della civiltà occidentale.

«Con quest’opera intendo riportare alla nostra coscienza aspetti della preistoria europea rimasti nell’ombra o semplicemente non abbastanza metabolizzati a livello paneuropeo. L’acquisizione di tale materiale potrebbe finalmente modificare la nostra visione del passato, nonché la nostra percezione delle potenzialità del presente e del futuro» (Gimbutas 2012, p. 7).

Un aspetto cruciale per le prospettive di ricerca da lei ispirate consiste nell’identificazione dell’Antica Europa neolitica come civiltà vera e propria. Nella prefazione al suo libro più importante l’archeologa confronta le proprie scoperte con l’antiquato modello vigente: «Io contesto la tesi che la civiltà si associ esclusivamente a società guerriere androcratiche.

Il principio su cui si fonda ogni civiltà si trova al livello della sua creatività artistica, nei suoi progressi estetici, nella produzione di valori non materiali e nella garanzia della libertà individuale che rendono significativa e piacevole la vita di tutti i cittadini, nel quadro di un equilibrio di potere equamente ripartito tra i sessi. […] Il Neolitico europeo non è stato un tempo “prima della Civiltà” […] È stato invece una vera e propria civiltà nella migliore accezione del termine» (cit., p. 8).

Fino ad oggi, la maggior parte degli studiosi tradizionali riconosce la civiltà androcratica come unico modello valido della nostra storia culturale. I pochi sostenitori di ipotesi diverse con modelli privi di gerarchia sociale, tuttavia, ignorano l’Antica Europa (ad esempio, Maisels 1999). Anche nell’opera monumentale di Cyprian Broodbank (2013) non si fa alcuna menzione dell’Antica Europa. Solo di recente si va elaborando un nuovo paradigma onnicomprensivo di modelli differenziali di civiltà, includendo l’Antica Europa (Haarmann 2011, 2020). È merito di Gimbutas aver messo in rilievo l’importanza della fase preparatoria di qualsiasi civiltà e, in particolare, dell’Antica Europa: «Tutto questo decora non è spuntato fuori ex nihilo. […]

L’ampia varietà del simbolismo religioso fiorito in Anatolia centrale e nell’Antica Europa è parte integrante di un’evoluzione ininterrotta avviata ai tempi del Paleolitico superiore» (Gimbutas 2013, p. 8). «La civiltà fiorita nell’Antica Europa tra il 6500 e il 3500 a.C., e a Creta fino al 1450 a.C., ha goduto di un lungo periodo pacifico senza interruzioni, che ha prodotto espressioni artistiche di graziosa bellezza e raffinatezza, dimostrando di poter garantire una qualità della vita superiore rispetto a molte società androcratiche e classiste» (Gimbutas 2012, pp. 7-8).

Questa condizione di esistenza pacifica è stata riconosciuta da numerosi archeologi che mettono in rilievo come negli insediamenti dell’Antica Europa non si trovano depositi di cenere attribuibili a incendi dolosi. L’elemento distruttivo entra in gioco con l’arrivo dei pastori indoeuropei durante le migrazioni che si irradiano dalla steppa eurasiatica (Gimbutas 2010).

Nonostante la ricchezza delle intuizioni e l’affidabilità documentaria, l’eredità di Marija Gimbutas non è stata prontamente accolta. Al contrario, negli anni Ottanta del secolo scorso, si è sviluppato un acceso dibattito nel corso del quale i suoi oppositori hanno messo in discussione l’autorità di questa ricercatrice visionaria, riducendo i suoi risultati a contestabili ipotesi. Dopo anni di futili controversie la reputazione di Marija Gimbutas è stata finalmente ristabilita e la sua eredità intellettuale sta vivendo una rinascita senza precedenti. È rimasta memorabile la conferenza di Colin Renfrew: Marija Rediviva, The Oriental Institute, 2017 – visibile in Youtube; per un bilancio del suo contributo complessivo all’archeologia si veda Elster 2013.

Il suo magistero continua a illuminare circoli accademici sempre più ampi.
La studiosa è diventata fonte di ispirazione per diversi progetti di ricerca ispirati dalle sue intuizioni visionarie basate su una metodologia all’avanguardia (datazioni al radiocarbonio, approccio interdisciplinare), un solido corpus documentario e una ricca collezione di reperti, in gran parte provenienti dagli scavi da lei diretti nei siti neolitici dell’Europa sudorientale (1967-80: Obre, Achilleion, Anza, Sitagroi, Grotta Scaloria e altri). Tuttavia, come vedremo in una breve panoramica nei prossimi paragrafi, la via verso il nuovo paradigma di ricerca sulle civiltà antiche è ancora disseminata di ostacoli.

Un paradigma datato
Il prototipo universale di civiltà gerarchica è un cliché da superare Secondo il nuovo paradigma inaugurato da Marija Gimbutas esistono almeno due modelli elementari di civiltà, quello apolide di società egualitaria (rappresentato dalla Civiltà dell’Antica Europa, o Civiltà danubiana, e dalla Civiltà della valle dell’Indo) e quello statale basato su una gerarchia sociale (rappresentato dalla Mesopotamia, dall’Antico Egitto e dai Maya nella Mesoamerica precolombiana).
L’aspetto tipico caratterizzante del modello privo di stato è l’uguaglianza economica e di genere.
Nel corso della transizione neolitica dalla caccia e dalla raccolta alla produzione vegetale (con agricoltura e orticoltura pienamente sviluppate), le attività di donne e uomini furono ripartite in modo equilibrato.

Gli uomini andavano ancora a caccia ma aiutavano anche le donne che si dedicavano principalmente alla semina, alla coltivazione e al raccolto. Il risultato di questo processo graduale è una fase di sviluppo equilibrata. Proprio ciò che Marija Gimbutas ha descritto nelle sue pubblicazioni. Il vecchio paradigma dello sviluppo lineare e unilaterale della società patriarcale come espressione inevitabile di “progresso” sociale è ormai obsoleto e va dunque rigettato.

Ci sono altri cliché da superare . L’idea della Mesopotamia come centro di irradiazione culturale (ex oriente lux) è infatti antiquata, visto che la ricerca moderna ha scoperto che le innovazioni tecnologiche principali hanno avuto provata origine altrove:

le prime ceramiche altamente raffinate con decorazioni eleganti appaiono nell’Antica Europa alla fine del Quinto millennio a.C. La produzione ceramica raggiunse il suo acme nella cultura regionale Cucuteni, almeno un millennio prima che raggiungesse un livello avanzato nell’antico Egitto e in Mesopotamia.

Marija Gimbutas ha documentato la modalità degli stili di ceramica a partire dal sesto millennio a.C. (Gimbutas 2012). «Prova certa che lisciatura e decorazione fossero compiute dalle donne viene dalla necropoli di Basatanya (fase Bodrogkeresztúr), in Ungheria orientale, dove in un certo numero di sepolture femminili è stato rinvenuto un set di arnesi per la lisciatura, pittura e incisione della ceramica, consistente di un sasso, una lisca (osso di pesce), un arnese per lucidare le ossa, un cofanetto e un mestolo» (Gimbutas 2012, p. 143); la prima scrittura emerge nell’ambiente culturale della civiltà danubiana (Gimbutas 2013); i primi esperimenti di fusione del metallo sono attestati nell’Europa sudorientale (Serbia meridionale). Gli inizi della fusione del rame nell’Antica Europa risalgono al 5400 a.C. ca. (Pernicka e Anthony 2010). Il che significa che questa tecnologia ha iniziato a diffondersi in Europa centinaia di anni prima che in Anatolia.

Le prime case dotate di struttura solida (singole) e l’inizio di stili architettonici diversi sono attestati in Tessaglia a partire dal 6500 a.C. ca; l’emergere delle prime infrastrutture urbane nella regione di Cucuteni-Trypillya risale al Quarto millennio a.C. (Gimbutas 2012: p. 10 e p. 117 ss.).

La scrittura come rituale
Tramonta anche il cliché di un prototipo universale della prima scrittura associato a funzioni economiche. La scrittura cuneiforme sumera non è la prima scrittura della storia dell’umanità. Le prime prove dell’uso dei geroglifici egizi risalgono ad almeno 150 anni prima dei testi sumeri più antichi (fine del Quarto millennio a.C.). Le origini di una tecnologia della scrittura nell’Antica Europa risalgono alla fine del Sesto millennio a.C. (Haarmann 1995, Marler 2008).

La presunta prima scrittura dell’umanità rivestiva funzioni economiche. La scrittura anticoeuropea, invece, era al servizio delle credenze religiose e delle pratiche rituali. I segni della scrittura sono incisi e/o dipinti sui corpi delle figurine, sulla superficie dei vasi di culto e sui lati degli altari in miniatura. Marija Gimbutas la definisce giustamente “scrittura sacra” (2013: pp. 99-115). L’uso dei segni lineari all’epoca dell’Antica Europa corrisponde a quello riscontrato nei primi sistemi di scrittura: segni intenzionali, forme convenzionali, allineamento sistematico, organizzazione interna, un ricco repertorio (i motivi delle ceramiche sono invece un numero limitato).

Altri interrogativi
La prima rete commerciale del mondo si è sviluppata in Medio Oriente? Le prime navi sono state costruite nel Golfo Persico? Il commercio su piccola scala nell’arcipelago dell’Egeo e in Anatolia ha avuto inizio più di diecimila anni fa. Lo sviluppo di reti commerciali di maggiore ampiezza risale però a un’epoca successiva, al Quinto millennio a.C., mentre la fioritura si è avuta nel corso del Quarto.

La prima rete non si è sviluppata in Medio Oriente, le rotte commerciali collegavano le regioni principali dell’Europa (e i centri dell’Antica Europa corrispondevano ai punti di scambio) e il commercio si estendeva fino alla steppa eurasiatica e alla regione dell’Anatolia. Quest’ampia rete commerciale comprendeva anche le estremità del Nord Africa.

La rete commerciale del Medio Oriente, che collega i centri commerciali sumeri con l’Egitto, Dilmun e l’antica civiltà dell’Indo, è stata istituita in un’epoca successiva: nel corso del Terzo millennio a.C. La costruzione delle prime navi si deve agli abitanti dell’Antica Europa che navigavano nel Mediterraneo e nel Mar Nero (Haarmann 2018), fra Sesto e Quinto millennio a.C., ovvero migliaia di anni prima dei navigatori del Vicino Oriente.

Misteriosamente scomparsi
Il mondo dell’Antica Europa è sparito senza lasciare traccia? Il tessuto originale dell’Antica Europa non esiste più, tuttavia, questo non significa che le sue tradizioni siano svanite. Le descrizioni di un “mondo perduto dell’Antica Europa” (Anthony 2010) risultano fuorvianti.

Al contrario, le conquiste culturali e le tradizioni della prima grande civiltà europea sono sopravvissute nelle culture successive con molteplici trasformazioni.

Le civiltà dell’antico Egeo (ovvero la civiltà minoica dell’antica Creta e quella di Thera) sono emerse dal ceppo dell’Antica Europa (Haarmann 1995). La cultura pelasgica nella penisola balcanica è stata identificata come “pre-greca” (Beekes 2014), quindi non di origine indoeuropea. La cultura e la lingua pelasgi che rappresentano l’ultima propaggine dell’Antica Europa.

All’indomani delle migrazioni indoeuropee verso l’Europa sudorientale il vecchio tessuto culturale non è stato sostituito da modelli di stampo indoeuropeo.

Inizialmente i migranti si sono stabiliti nelle vicinanze della popolazione pre-greca, i Pelasgi (“persone che vivevano qui prima di noi”, da pelas, “nelle vicinanze, nel quartiere”), dando origine a un processo di fusione culturale con vari modelli innovativi. Uno di questi, il culto degli eroi, mostra le modalità di funzionamento delle dinamiche della fusione, fungendo da pilastro nella fondazione della civiltà occidentale.

Gli eroi patriarcali indoeuropei hanno avuto legittimità divina per atel’esercizio del potere dalle dee pre-greche. Marija Gimbutas ha vivamente sostenuto i progetti di ricerca per la prosecuzione della sua opera, in particolare gli studi sulla sopravvivenza delle caratteristiche culturali dell’Antica Europa nelle fasi successive, e cioè nel cosiddetto mondo antico. Un vasto panorama di tradizioni – negli ambiti del folklore e della mitologia, in vari settori artigianali, nel contesto delle istituzioni sociali e negli stili artistici – può essere identificato nelle culture regionali dell’Europa sudorientale (Haarmann 2011, p. 257 ss.; 2014).

Il linguaggio e la scrittura dell’Antica Europa sono andati persi? Nel lessico greco antico sono state identificate circa 1700 parole che si possono associare alla lingua del substrato, cioè alla lingua parlata nella regione dell’Ellade prima della migrazione indoeuropea (Beekes 2010).
I prestiti pre-greci non sono sparsi in modo casuale, i più antichi sono organizzati in domini lessicali pertinenti che rivelano le varie incursioni dell’influenza culturale dell’Antica Europa (ad esempio: ceramica, tessitura, olivicoltura, lavorazione dei metalli, costruzione navale, commercio, religione, istituzioni democratiche) (Haarmann 2014).

La scrittura danubiana (o dell’Antica Europa) ha avuto vari esiti nelle culture dell’Egeo: la scrittura
lineare A (scrittura minoica dell’antica Creta) e la successiva derivazione, la scrittura lineare B per il greco miceneo; la scrittura cipro-minoica e cipriotasillabica; i segni aggiuntivi dell’alfabeto greco: chi, phi, psi (Haarmann 1995).

La grande Dea archetipica
Cosa è stato della Dea dell’Antica Europa dopo l’arrivo dei migranti indoeuropei? L’interruzione nella produzione di figurine della Dea neolitica nel tumultuoso periodo delle migrazioni indoeuropee dopo il Terzo secolo a.C. è solo apparente, perché al posto della tradizionale argilla si cominciò a usare la cera.

Essendo questa biodegradabile, gli scavi archeologici non ne hanno conservato traccia.
La continuità della produzione di figurine in argilla della Dea nell’arcipelago dell’Egeo (nella Creta minoica e nelle antiche isole Cicladi) non si interrompe per tutto il corso dell’età del Bronzo e in epoca micenea.

Anche sulla terraferma la produzione di figurine fittili si mantiene in alcuni luoghi, ad esempio a Lerna nel Peloponneso, nel corso del Terzo millennio a.C.
L’eredità monoteistica della Grande Dea neolitica non è nemmeno svanita nel confronto con la visione patriarcale del mondo degli indoeuropei immigrati, dando luogo a un processo prolungato di fusione. La mitologia classica, per esempio, è un ambito culturale che nonostante l’abbondanza di figure, motivi e strategie narrative pre-greche viene a torto ascritto in blocco alla cultura greca.

Atena e le altre

La Grande Dea riappare nella veste delle sue “figlie”, cioè le potenti dee del pantheon “greco”, i cui nomi e culti risalgono perlopiù all’epoca pre-greca. La loro origine è dunque antecedente al periodo greco arcaico e a quello greco-miceneo (Dexter 1990). Le narrazioni mitiche riflettono diverse fasi del processo di fusione nel corso del quale i protagonisti maschili del pantheon greco hanno esteso il loro ambito di potere a spese delle controparti femminili (Yasumura 2011).

Quando gli antenati dei greci hanno portato il loro dio del cielo, Zeus, nella regione ellenica, questi aveva una moglie indoeuropea, Divia, che veniva ancora venerata in epoca micenea con un santuario a Pylos.

Tuttavia, in seguito, la dea indigena Hera l’ha sostituita. In senso metaforico l’unione di Hera e Zeus può essere considerata un motivo guida mitologico che riflette la fusione di due diverse visioni del mondo avvenuta nell’Europa sudorientale. La più gloriosa di tutte le dee pre-greche è Atena, icona dello stato ateniese: con la sua ampia gamma di abilità sia in ambito artigianale che intellettuale, ricorda la sua antenata divina, la Dea dell’Antica Europa. Il più grande tempio dell’Acropoli, il Partenone, non era dedicato a Zeus ma a lei, che dominava la vita pubblica e privata degli ateniesi.

Gli stili artistici Neolitici
La storia dell’arte non è riuscita a identificare le fonti di ispirazione di molti artisti le cui creazioni vengono etichettate come “arte moderna”. Nel caso di Constantin Brancusi (1876-1957), ad esempio, si ricorre all’arte tradizionale africana. Dalla sua biografia si può invece dedurre che a ispirarlo maggiormente è l’immaginario tradizionale del paese natale, la Romania dell’inizio del XX secolo (le ceramiche tradizionali di Oltenia e Dobrogea riprendono forme dell’epoca neolitica). Il successo di alcuni scultori moderni decretato da una parte di critici e storici dell’arte è stato attribuito all’originalità delle loro opere che si discostano dalla tradizione greca classica. Oltre a Brancusi, a questo proposito si possono citare Henry Moore, Barbara Hepworth e Alberto Giacometti (Haarmann 2013: p. 275 ss.).

La loro originalità scaturisce dalla rivitalizzazione e rimodulazione di forme e stili di una tradizione artistica locale extracanonica, non da un presunto impulso innovativo.
In molti luoghi in cui si erano stabiliti gli antenati degli immigrati greci esistevano comunità più antiche: i discendenti dell’Antica Europa. Questi insediamenti avevano una designazione pre-greca, ovvero kome (termine che risale alla lingua del substrato). Non erano governati da capi locali, ma venivano amministrati da un consiglio di villaggio. In effetti, si trattava di un tipo di autogestione comunitaria.

La maggior parte dei kome più antichi si è mantenuta nell’antichità greca classica fungendo da modello per il governo democratico. Ad esempio, Thorikos, una comunità a sud-est di Atene, famosa per le sue miniere d’argento di proprietà collettiva, che si è arricchita al punto da potersi permettere un proprio teatro in concorrenza con quello di Dioniso ad Atene.

Nella filosofia antica il mito è stato sostituito dalla ragione: una convinzione errata. L’Illuminismo europeo del Diciottesimo secolo ha favorito l’affermazione del culto della ragione. Questa tendenza che ha opposto la ragione al mito non ha reso un buon servizio alla conoscenza della vita intellettuale presso gli antichi greci. Le distorsioni dell’Illuminismo hanno condizionato il nostro approccio all’educazione, facendoci privilegiare la ragione come modalità di indagine fino ai giorni nostri.

Gli antichi intellettuali greci (cioè i filosofi presocratici, i primi storiografi, i filosofi dell’età classica) non postulavano un’opposizione tra mito (mythos) e ragione (logos). In effetti, erano considerate due modalità di indagine diverse, ciascuna dotata del proprio valore (Morgan 2000, Haarmann 2015).
In uno dei suoi dialoghi Platone ha persino coniato un neologismo per spiegare come gli argomenti e i motivi di tipo mitico celassero fonti di conoscenza.
Il termine è mythologia e ricorre per la prima volta nella Repubblica (394b).

Eurinome e la Paleoeuropa
I testi narrativi riguardanti la tradizione mitica nell’antichità greca contengono numerosi concetti e motivi che rimandano al patrimonio culturale dell’Antica Europa. Inoltre, vi sono alcuni miti che gli stessi greci riconoscevano come pre-greci, quali ad esempio il “mito pelasgico” della dea primordiale Eurinome come Creatrice di tutti gli esseri viventi.

A torto si è considerato Platone un autore “patriarcale”: nella sua teoria politica della società ideale si esprime a favore dell’uguaglianza di genere. Il filosofo onora in special modo Atena, dea pre-greca. Platone le assegna il ruolo di “intelletto divino” per l’ordine mondiale. Nessun altro dio del pantheon greco godeva di un simile privilegio. Nel suo sforzo filosofico riecheggia lo spirito dell’Antica Europa.

Quale conclusione?
Potremmo ancora continuare a lungo, ma in questa sede ci basti una panoramica
orientativa delle possibili vie di ricerca che si sono aperte e si potrebbero aprire in futuro a partire dal lavoro di Marija Gimbutas (vedi anche Pelaia 2016).
Una vita non basta per esplorare tutti gli orizzonti aperti da questa ricercatrice visionaria.

Da: www.preistoriainitalia.it/

Autore foto: Cristian Chirita, Wikimedia