Museo dei dolmen. Diluvio universale, la storia dietro il mito

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Madrid, 27 feb. (Javier Alonso López, StoricaNG) - Secondo un’antica tradizione ebraica, per tutto il tempo da lui trascorso all’interno dell’arca, in attesa che finisse il diluvio, l’anziano Noè passava le sue giornate prendendosi cura delle coppie di animali tratte in salvo.

Forniva fieno ai cammelli; segale agli asini; i camaleonti si cibavano di vermi e i leoni, febbricitanti, si astenevano dal divorare altri animali e si nutrivano di paglia come i buoi. Estenuato dal lavoro, Noè, tuttavia, si accorse che uno degli animali non mangiava nulla: era la fenice.

Il patriarca si avvicinò dunque al volatile e chiese: «Perché non mi hai chiesto alcun cibo?», e la fenice rispose: «Siete già abbastanza occupati tu e la tua famiglia, e non voglio arrecare ulteriori fastidi». Allora, Noè la benedisse, augurandole di non morire mai. E per questo la fenice è immortale: secondo il mito, infatti, rinasce dalle proprie ceneri per vivere in eterno.

Come la fenice, anche l’interesse per la leggenda del diluvio sembra non morire mai nel cuore degli uomini, che da sempre s'interrogano su quale sia il suo significato e la sua veridicità storica, e a lungo hanno ricercato, invano, dei resti materiali dell’arca di Noè.

Il più celebre racconto del diluvio, benché non sia stato il primo a essere scritto, è senza dubbio quello che compare nel libro biblico della Genesi, ai capitoli 6-9. Tuttavia, questo ampio passaggio dell’Antico testamento, in realtà, è il risultato della fusione di due narrazioni distinte, compiuta nel V secolo a.C. da una terza mano, forse quella di Esdra, sacerdote e scriba ebreo. Tale operazione fu condotta così accuratamente che le due parti sembrano costituire un’unica narrazione lineare.

Due storie in una
Ciononostante, se ci si sofferma sui dettagli della storia esposta nella Genesi, si possono notare alcune differenze linguistiche e stilistiche e la presenza di contraddizioni e duplicati, ossia di fatti ripetuti in forma diversa due o più volte. Nel racconto del diluvio, infatti, Dio è designato con due appellativi diversi: in alcuni versetti viene chiamato Yahweh, in altri Elohim.

Inoltre, in una delle due versioni, detta jahwista per l’uso del nome divino che la caratterizza, Noè riceve l’ordine di far entrare nell’arca una coppia di animali per ciascuna specie impura, ma sette coppie per ciascuna specie di animali puri (cioè quelli che potevano essere destinati ai sacrifici). Al contrario, l’altra versione, la cosiddetta “sacerdotale”, che utilizza il nome di Elohim per indicare Dio, fa riferimento a una sola coppia per ogni specie.

Secondo il testo jahwista le piogge durarono quaranta giorni e quaranta notti; per il testo sacerdotale, un anno intero. E ancora, il primo afferma che Noè inviò fuori dall’arca una colomba; il secondo, un corvo. In più, mentre per il racconto jahwista il diluvio è provocato da una pioggia ininterrotta, secondo quello sacerdotale è causato dall’aprirsi delle cateratte del cielo e delle sorgenti dell’abisso sotterraneo. È dunque evidente che quando il testo biblico acquisì la sua forma definitiva, grazie all’opera di uno o più redattori, esistevano già diverse tradizioni sul diluvio.

Di fatto, entrambi i testi sacri provenienti dai due regni sorti dopo lo scisma politico-religioso seguito alla morte di Salomone nel 930 a.C., il regno di Giuda (a cui si deve la tradizione jahwista), e quello di Israele (a cui si deve la tradizione elohista), presentavano la notizia di un terribile diluvio, scatenato da Dio per punire l’empietà della stirpe umana.

Irrompe un Noè sconosciuto
Fino al XIX secolo il racconto biblico era l’unica fonte letteraria conosciuta del Vicino Oriente antico che menzionasse questo catastrofico episodio. Un’eco della narrazione del diluvio universale contenuta nelle Scritture si ritrova poi in opere ebraiche posteriori, quali il Libro dei Giubilei (un apocrifo dell’Antico testamento, datato intorno al II secolo a.C.), o il Libro della Sapienza (risalente alla fine del I secolo a.C.), non incluso nel canone giudaico della Scrittura, ma presente in quello cristiano. Peraltro, anche lo storico giudeo Giuseppe Flavio riporta tale leggenda nelle sue Antichità giudaiche (I secolo d.C.).

Tutti i commentari e i riferimenti al racconto si fondavano principalmente sulla Genesi biblica. Tuttavia, l’Antico testamento cessò di essere la fonte privilegiata per la storia del Vicino Oriente quando, tra il 1800 e il 1857, fu portata a compimento la decifrazione della scrittura cuneiforme, in uso presso le antiche culture mesopotamiche.

Si apriva allora una nuova finestra sulla conoscenza di queste civiltà arcaiche grazie alle decine di migliaia di tavolette di argilla lasciateci in eredità dai diversi popoli che fiorirono nell’area della cosiddetta Mezzaluna Fertile (compresa tra gli attuali Siria, Iraq e Giordania) nei tre millenni precedenti la nascita di Cristo: sumeri, elamiti, accadi, ittiti. Per la prima volta era possibile esaminare testimonianze dirette di tali culture, altrimenti note attraverso la visione mediata della Bibbia.

Tra le numerose tavolette riportate alla luce dagli archeologi vi erano le oltre 20mila della biblioteca di Assurbanipal, rinvenute nel 1849 dall’orientalista inglese Austen Henry Layard a Ninive, antica capitale dell’Assiria. Tra questi preziosi reperti, presto trasferiti al British Museum di Londra, si trovavano alcuni frammenti dell’Epopea di Gilgamesh, instancabile eroe alla ricerca dell’immortalità, protagonista di cinque composizioni epiche sumeriche e di un grande poema in accadico, che per alcuni studiosi sarebbe identificabile con il quinto re della prima dinastia di Uruk.

Nel 1872 George Smith, un curatore del British Museum, esaminando alcuni frammenti del poema mesopotamico, scoprì la leggenda di Utnapishtim. Si trattava di un “Noè babilonese”, unico superstite, insieme alla sua famiglia e a pochi esemplari di tutte le specie animali, di una devastante alluvione scatenata dagli dei per annientare l’umanità.

Lo stesso George Smith riferiva non senza emozione i dettagli della sua scoperta: «Trovai presto la metà di una curiosa tavoletta che doveva contenere in origine sei colonne di testo... Esaminando la terza colsi la descrizione di una nave approdata sopra i monti Nisir, seguita dal resoconto della vana missione della colomba in cerca di un posto dove posarsi e del suo ritorno. Capii immediatamente che avevo scoperto almeno una parte del racconto caldeo del diluvio». Secondo una pubblicazione commemorativa del British Museum, lo studioso, entusiasta, si sarebbe poi messo a saltellare come un matto per la stanza «e tra lo stupore dei presenti prese a spogliarsi».

Alla ricerca dell’arca
Si trattava di una scoperta straordinaria per un erudito di epoca vittoriana, poiché, indipendentemente dal racconto biblico, le tavolette sembravano confermare che il cataclisma del diluvio fosse realmente accaduto. Questa era la prova che, come si riteneva allora, la Bibbia poteva essere considerata un documento affidabile dal punto di vista storico. Oggi, d’altronde, gli studi biblici e mesopotamici sono notevolmente progrediti, e sono in pochi a considerare fonti storiche attendibili l’Epopea di Gilgamesh e il racconto biblico del diluvio, che, probabilmente, s'ispirò a quest’ultima.

L’opinione comune tra gli studiosi è che le Scritture siano un’opera di natura essenzialmente teologica, che possono offrire talvolta agli storici informazioni valide, talaltra notizie palesemente distorte e attinenti senza dubbio alla sfera del mito e delle leggende popolari. Tuttavia, benché la comunità scientifica sia perlopiù concorde nel negare un fondamento storico al diluvio e alla figura di Noè (o di Utnapishtim) e della sua arca, vi è ancora chi prosegue la ricerca di prove materiali del grande cataclisma o una spiegazione razionale del mito narrato nella Genesi.

Naturalmente, l’arca di Noè è sempre stata il principale obiettivo delle indagini di quanti intendevano attestare la veridicità del racconto. Seguendo le indicazioni di Genesi 8,4, le ricerche archeologiche si sono tradizionalmente concentrate sul monte Ararat, in Turchia. Molti sono stati coloro che hanno scalato le due vette di questo monte in cerca dell’arca, e alcuni sono arrivati ad asserire di averla trovata o, perlomeno, di averne individuato alcuni resti di legno.

Ultimamente, ad attribuirsi tale scoperta è stata una équipe di ricercatori turchi e cinesi, nel 2010, ma sono stati sollevati forti dubbi sull’attendibilità del ritrovamento. È certo, in ogni caso, che finora nessuno studioso ha potuto addurre prove scientificamente inoppugnabili dell’esistenza dell’arca.

Un’altra linea d'indagine ha puntato invece a fornire una spiegazione naturalistica del diluvio o dell’inondazione descritti nella Bibbia. Nel 1998 due geologi marini della Columbia University, William B. F. Ryan e Walter C. Pitman, hanno proposto una suggestiva teoria. Secondo i due scienziati, circa 7500 anni fa, in epoca postglaciale, a causa dello scioglimento dei ghiacci le acque del mar Mediterraneo si alzarono di livello e strariparono oltre la diga naturale in corrispondenza dell’attuale Bosforo, che isolava il mar Nero (allora un vasto lago di acqua dolce) dal Mediterraneo. Tale trasformazione del lago in un mare in comunicazione con il Mediterraneo avrebbe provocato la scomparsa di 150mila chilometri quadrati di territori e segnato la morte di migliaia di vite umane e di animali.

Il ricordo della catastrofe si sarebbe dunque tramandato di generazione in generazione e nel corso dei secoli avrebbe preso i contorni del mito: quello del diluvio scatenato dagli dei per punire l’umanità. La tradizione orale si sarebbe poi cristallizzata nella redazione scritta dell’Epopea di Gilgamesh e della Genesi.

Se la ricostruzione dell’evento geologico suggerita dai due studiosi non ha sollevato obiezioni da parte della maggioranza dei colleghi, resta tuttavia dubbio il collegamento con il diluvio. D’altronde, ogni nuova teoria o ritrovamento non fa altro che riaccendere l’interesse per questa affascinante leggenda, suscitando nuove domande senza risposta.

Da: www.storicang.it/a/

Autore foto: Shardan, Wikimedia