
Firenze, 8 ott. (Federico Giannini/Ilaria Baratta, Finestre sull'arte) - Si può solo immaginare il senso di sbigottimento che, quel 15 novembre del 1553, gli aretini provarono quando si diffuse la notizia del ritrovamento di quello splendido bronzo etrusco che oggi conosciamo come la Chimera di Arezzo.
E ancor più forte doveva essere la meraviglia degli operai che lavoravano dove il bronzo venne ritrovato: uno scavo vicino alle mura, nei pressi della Porta di San Lorentino, in occasione dei lavori di costruzione di un nuovo baluardo voluto dal duca Cosimo I de’ Medici. La Chimera fu rinvenuta a cinque metri di profondità, assieme a un gruppo di bronzetti votivi che erano sepolti lì da secoli: animali e figure umane tutti attorno ai 20 centimetri di altezza, mentre invece la Chimera raggiunge quasi il metro.
Un po’ come è avvenuto solo pochi anni fa, nel 2022, quando sono stati ritrovati i bronzi di San Casciano, un’altra delle più clamorose scoperte di sempre sull’arte etrusca. Cinque secoli di differenza, ma lo stupore, quando si scopre qualcosa di tanto insolito e tanto inaspettato, è sempre lo stesso.
La scoperta della Chimera di Arezzo, che l’etruscologo Vincenzo Bellelli ha definito “di gran lunga il più importante bronzo etrusco di sempre”, è annotata negli Atti e deliberazioni del partito dei priori e del consiglio generale del Comune di Arezzo, una sorta di registro di quello che accadeva in città all’epoca. E proprio questo documento, redatto in latino, non soltanto sottolinea l’eccezionalità di quel ritrovamento, ma anche il clamore che la scoperta suscitò tra gli aretini.
La Chimera, registrata negli Atti come “insigne Etruscorum opus”, “insigne opera degli etruschi”, faceva parte di una stipe, ovvero un deposito votivo, e fin dall’origine aveva una funzione legata alla religione, poiché sulla zampa anteriore destra della belva si legge “TINSCVIL”, o “TINS’VIL”, cioè “donata al dio Tin”, il corrispondente etrusco del Giove dei latini. Era il pezzo più significativo e di dimensioni maggiori di una serie di bronzi che furono subito inviati a Firenze, a Palazzo Vecchio, assieme alla grande statua che raffigura l’essere mitologico, affinché fosse vista dal duca (che, naturalmente, voleva trattenere i rinvenimenti a Firenze, e questa sua volontà provocò peraltro un certo disappunto ad Arezzo) e tutto l’insieme venisse pulito.
Che si trattasse di un lavoro etrusco, dunque, fu subito chiaro a tutti, così come chiaro era il valore dell’opera. Non fu invece immediatamente chiaro il soggetto, perché la Chimera si presentava senza la coda a forma di serpente: venne trovata soltanto in un momento successivo, e fu aggiunta alla statua nel Settecento con un restauro eseguito dallo scultore Francesco Carradori (Pistoia, 1747 – 1824). Inizialmente, la Chimera fu equivocata per un leone, ma venne poi riconosciuta, dopo alcuni mesi, come la bestia della mitologia greca grazie anche al lavoro degli studiosi del tempo, che si misurarono con la letteratura classica e, soprattutto, con le monete antiche che raffiguravano la Chimera e che furono decisive per identificare il soggetto della scultura.
Secondo il racconto antico, la Chimera era un mostro col corpo e la testa di leone, una testa di capra sulla schiena, e un serpente come coda. Viene descritta anche nell’Iliade di Omero come “il mostro di origine divina, / leone la testa, il petto capra, e drago / la coda; e dalla bocca orrende vampe / vomitava di fuoco: e nondimeno, / col favor degli dèi, l’eroe la spense”. Il poeta alludeva alla principale ‘arma’ del mostro, la sua capacità di sputare fuoco. Secondo il mito, era stata generata, al pari di altre creature mostruose come l’Idra di Lerna, Cerbero e Ortro, dalla discendenza di Tifone ed Echidna, e abitava nelle montagne a picco sulle coste della Licia, una regione dell’attuale Turchia sud-occidentale.
La Chimera terrorizzava le popolazioni della Licia, così il re Iobate, stanco di queste continue incursioni, chiamò l’eroe greco Bellerofonte per uccidere la bestia: il figlio di Poseidone riuscì a sconfiggerla con l’aiuto del cavallo alato Pegaso e con uno stratagemma, ovvero lanciando nella sua bocca una lancia di piombo, che si sciolse col calore delle fiamme sputate dalla Chimera e la uccise soffocandola.
Da: www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/
Fonte foto: Classtravel.it