Museo dei dolmen. Il braccialetto della regina Hetepheres riscrive la storia dei contatti tra Egitto e Grecia

Hetepheres

Boston, 12 mag. (Mara Zoppi, Mediterraneo Antico) - Un gruppo di ricercatori provenienti dall’Australia, dagli Stati Uniti e dalla Francia ha recentemente analizzato il braccialetto in argento della regina Hetepheres – madre del celeberrimo faraone Cheope (2589–2566 a.C.) della IV dinastia – rinvenuto nella sua sepoltura a Giza nel 1925 e conservato al Museum of Fine Arts di Boston.

I risultati della ricerca, pubblicati sul Journal of Archaeological Science, rivelano un’intensa rotta commerciale che collegava l’Egitto alle Isole Cicladi ben più di 500 anni prima di quanto si pensasse.

Il team, guidato dalla Dott.ssa Karin Sowada del Dipartimento di Storia e Archeologia della Macquarie University di Sydney, ha impiegato tecniche come la diffrattometria a Raggi X, XRF di massa, micro-XRF e SEM-EDS su alcuni pezzi della collezione di argenti del museo americano per comprendere le composizioni mineralogiche essenziali, i processi di lavorazione e trattamento dei minerali e il loro luogo d’origine. In modo particolare, è emerso che i manufatti in argento presentano tracce anche di rame, oro, piombo e altri elementi, mentre i minerali sono argento, cloruro d’argento e vi sono possibili tracce di cloruro di rame.

I ricercatori hanno poi analizzato gli isotopi del piombo, per meglio comprendere la provenienza del metallo, e, sorprendentemente, hanno scoperto una coerenza con i minerali che provengono dalle Isole Cicladi e, in misura minore, con quelli della miniera del Laurion, in Attica.

Ciò significa che l’Egitto e la Grecia facevano parte di una rete di scambi commerciali sin dall’Antico Regno, a differenza di quanto riportano le fonti che iniziano a nominare questi scambi a partire dal Medio Regno (2055-1790 a.C.). Inoltre, questo studio rappresenta una ulteriore conferma del fatto che l’argento provenisse proprio dal Mediterraneo orientale, in particolare dalle isole dell’Egeo.

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Autore Foto: Peter Isotalo, Wikimedia