Museo dei dolmen. Totemismo, un aspetto della religione primitiva che ha lasciato tracce anche a Roma

totemismo

Roma, 30 nov. (Federico Bardanzellu) - Totemismo. E' un aspetto della religione e della cultura primitiva comune a tutti i popoli della terra. Venne identificato a partire dalla fine del XIX secolo da antropologi di primissimo piano. Parliamo di James Frazer, Claude Lévi-Strauss e Bronisław Malinowski.

Consiste nel collegamento tra il clan, la tribù o, addirittura, l’identificazione dell’antenato capostipite, con uno specifico animale o una figura zoomorfizzata. In altri casi la figura totemica può essere rappresentata da una pianta o da un particolare elemento naturale.

Il totemismo, quindi, non fu praticato soltanto dai pellerossa americani, come potrebbe sembrare dalla parola da cui deriva (totem). Né si è concluso con il fiorire della civiltà. Alcune sue espressioni sono proseguite nel Medio Evo. In Inghilterra, un'intera dinastia regnante, i Plantageneti, riteneva di discendere da una pianta. D'altronde, anche al giorno d'oggi, i tifosi di gran parte delle squadre di calcio innalzano come propria insegna la figura di un animale.  La zebra, per gli juventini; il biscione, per gli interisti; la lupa per i romanisti; l'asinello per i napoletani e così via.

Primavera sacra e totemismo
Tra le popolazioni italiche di epoca preistorica esisteva un suggestivo rito propiziatorio di origine totemica. Era la Primavera sacra o ver sacrum. L'epoca in questione è l'età del bronzo finale, tra il 1100 e il  900 a.C. In quei tempi la penisola italiana (isole escluse) era abitata da una popolazione culturalmente omogenea, forse anche etnicamente. Potremmo chiamarli “proto-italici”, per non utilizzare il poco comprensibile nome attribuito loro dagli studiosi specializzati (“proto-villanoviani”).

L'età del bronzo finale fu un periodo costellato da frequenti terremoti e grandi carestie in tutta l'area del Mediterraneo. Quando venivano colpiti da una grave sciagura questi popoli dedicavano alla divinità i neonati della primavera seguente. Probabilmente in origine i dedicati agli dei venivano sacrificati sugli altari. In seguito, però, si stabilì che, al raggiungimento della maggiore età, i giovani consacrati avrebbero abbandonato i villaggi di origine. Sarebbero migrati verso nuove terre al seguito di un animale sacro.

Nel rito della primavera sacra, quindi, l’animale totemico è facilmente identificabile con l’animale guida. Fu così che venne popolata, nei secoli della preistoria, la dorsale appenninica. Si formarono, allora, nuovi popoli, rompendo l'originaria omogeneità etnico-culturale della penisola. Il nome con il quale sono stati tramandati alcuni di questi popoli formatisi grazie a una primavera sacra deriva dall’animale guida della loro primordiale migrazione. I piceni, da un picchio. Gli equi da un cavallo (equus). I lucani da un lupo, così come gli irpini. Hirps, in lingua sabellica, infatti, sembra che significasse lupo. I sanniti sarebbero stati guidati da un toro, simbolo da loro scelto nei secoli successivi per coniare le prime monete.

Totemismo tra i latini

Anche il popolo latino si è formato, con tutta probabilità grazie a una o più primavere sacre. A noi le figure dei primi capostipiti dell’etnia latina sono giunte in forma già umanizzata. Gli storici previrgiliani ci hanno tramandato infatti il ricordo di un certo Picus, fondatore del villaggio di Albalonga  . Trattasi probabilmente dell’umanizzazione del picchio, animale guida di una primordiale migrazione sino al massiccio dei Monti Albani.

Successivamente un nuovo ver sacrum dovrebbe aver fatto giungere un altro gruppo di giovani al seguito di un personaggio sconcertante. Il nome di costui è Fauno, l’incolto, metà uomo e metà animale, che viveva nei boschi. Doveva trattarsi, molto probabilmente, di un licantropo. Con il succedersi delle generazioni, il personaggio di Fauno divenne sempre più impresentabile. Sorse dunque la necessità di sostituirlo con una figura non più totemica ma completamente umanizzata.

All'epoca della Roma repubblicana (dal 500 a.C. In poi) a Fauno si affiancò Latino, inizialmente considerato suo fratello e a volte suo figlio. Latino divenne ben presto il primo sacerdote del culto di Iuppiter Latiaris. Venne poi divinizzato come nume tutelare del popolo latino. Infine, nella versione virgiliana, sostituì Pico e Fauno come capostipite dei latini stessi.

Riti collegabili al totemismo presenti nella leggenda della fondazione di Roma
Nella genesi del mito della fondazione di Roma, alcuni riti collegabili al totemismo sono presenti sin dall’epoca dell’insediamento latino-albano sul colle Palatino. In epoca cioè precedente alla fondazione romulea. La grotta del Lupercale che si apriva sul fianco del Palatino, davanti alla palude del Velabro era infatti teatro di riti preistorici collegati a Fauno. Ancora in età repubblicana vi si svolgeva la cerimonia rituale del Lupercale. Nel corso di essa alcuni giovani correvano nudi attorno al Palatino in onore di Fauno. E’ proprio nella grotta del Lupercale, secondo la leggenda, che approdò la cesta dove erano stati abbandonati i gemelli Romolo e Remo. Ivi furono allattati dalla lupa.

L’aspetto totemico della genealogia dei gemelli è ancora documentata sul retro di uno straordinario specchio del IV secolo a.C. ritrovato a Volsinii (Bolsena). Romolo e Remo sono accovacciati fra le gambe della lupa e sotto il ficus ruminalis. Il ficus potrebbe rappresentare un elemento della componente sabina di Roma. Sulle spalle della lupa vi sono gli uccelli sacri del picchio (Picus) e della civetta. Quest’ultima, detta parra, era un animale sacro a Vesta.

Ai lati sono Fauno, verso cui guarda Remo e – probabilmente – Latino, verso cui guarda Romolo. Lo spazio complessivamente riservato al culto di Fauno è comunque maggiore degli altri. Non solo per la presenza di un altro lupo, seduto in basso alla scena. Soprattutto per l’aspetto materno del personaggio rappresentato dalla lupa (Fauna) che allatta i gemelli.

Marte sostituì un originario dio Fuoco come genitore di Romolo e Remo
La figura del dio Marte, padre dei gemelli in base alla leggenda tradizionale, è presente nello specchio del IV secolo ma in un ruolo molto sfumato. Appare infatti tra i rami del ficus, accanto alla madre dei gemelli (Rea Silvia). Indossa un copricapo alato e ha ancora l’aspetto di un secondario Mercurio. E’ necessaria, pertanto, una riflessione sulle origini di tale divinità nel Pantheon di Roma.

In una versione primitiva della leggenda di Romolo e Remo, il padre dei gemelli sarebbe stato il dio Fuoco. Lo riporta lo storico greco Promathion e la cita Plutarco. La vestale Rea Silvia, infatti, sarebbe stata fecondata da una scintilla (ignis) scaturita dal focolare. Nello specchio di Bolsena appare ancora la presenza dell’elemento del fuoco. Ma è molto defilata e mediata dalla figura dell’innocua civetta, sacra a Vesta.

Solo successivamente – probabilmente all’epoca della dinastia etrusca dei Tarquini – Marte si sostituì al dio Fuoco come genitore dei due gemelli fondatori di Roma. In effetti, anche in Etruria troviamo il dio della guerra Maris. E’ una divinità molto simile al latino Mars e al greco Ares, figlio di Zeus e di Era. Così come Ignis lo era di Giove.

Autore Foto: La Cara Salma, Wikipedia