Lavoro e occupazione 2024, dati in chiaroscuro

Roma, 14 mar. (Federico Bardanzellu, InLibertà). Lavoro e occupazione. Sono stati resi pubblici dall’ISTAT i dati economici relativi al 2023. Apparentemente sono dati ampiamente positivi. Per il terzo anno consecutivo l’occupazione è cresciuta. In particolare, nell’anno uscente, è stato rilevato un incremento di circa 500.000 posti di lavoro. Con un tasso di aumento del 2,3%.

L’incremento dell’occupazione è in parte anche qualitativo, investendo il solo lavoro a tempo indeterminato. Si rileva inoltre, soprattutto al sud, un incremento per le donne giovani e gli uomini più anziani. Il tasso complessivo di occupazione, nel 2023, è salito al 61,9 %, mentre quello di disoccupazione scende al 7,2%. Sono cifre quasi da anni del boom, soltanto mitigati dal 33,1% del tasso di inattività. Ma non è tutto oro ciò che luccica.

Lavoro e occupazione diversamente distribuiti tra centro-nord e sud
Se andiamo a esaminare più criticamente i dati, si rileva che al sud il tasso di occupazione non va oltre il 49,1%. Ancora quasi 13 punti in meno rispetto alla media complessiva del paese. Nonostante che, al netto del lavoro stagionale, il lavoro nel Mezzogiorno sia aumentato di circa il 2%, contro il +1% circa del resto d’Italia. Critica rimane la situazione del lavoro femminile. L’occupazione maschile in Italia è dappertutto più alta di quella femminile. Nel sud, quella femminile, registra un tasso di occupazione da terzo mondo: il 37,2%.

Parimente problematica l’occupazione nella fascia d’età 15-24 anni. Risale – con un incremento soprattutto nel settore femminile – tra i 25 e i 34 anni. Si rilevano nuovamente problemi nella fascia che dovrebbe costituire il “perno” dell’economia. Quella cioè tra i 35 e i 49 anni. Mentre la fascia tra i 50 e i 64 anni registra un ulteriore incremento. Probabilmente dovuto al procrastinarsi dell’età pensionabile.

L’incremento dei posti di lavoro non è accompagnato da un pari incremento del monte salari
Nonostante l’incremento complessivo dei posti di lavoro, gli istituti di ricerca rilevano ancora 500.000 posti vacanti. Un numero in leggerissimo incremento rispetto al 2022 ma che investe tutti i settori economici. Tale difficoltà nel reclutamento dei lavoratori dovrebbe essere accompagnata da un incremento complessivo del monte salari. Ma, contrariamente a tutte le leggi economiche, in Italia ciò non avviene.

In tal caso il problema è atavico. Negli ultimi 30 anni il monte salari dei lavoratori italiani ha registrato un incremento soltanto dell’1%. Nello stesso periodo la media di incremento nei paesi OCSE è stata del 32,5%. Nel 2023 i dati dell’ISTAT registrerebbero un ‘incremento dell’1,6%. Tale dato, tuttavia, non copre l’alta inflazione registrata nel corso dell’anno uscente. Il problema degli economisti (ma, soprattutto dei lavoratori italiani) è che l’economia non cresce in proporzione all’incremento dell’occupazione. Per questo i salari ristagnano.

Secondo gli imprenditori il problema è sempre l’alto costo del lavoro
La “campana” degli imprenditori suona sempre lo stesso ritornello: i salari sono bassi perché il costo del lavoro è alto. Stavolta i dati ISTAT darebbero loro ragione. Nel 2023 il costo del lavoro sarebbe aumentato in media del 3,2%. Cioè molto più del monte salari complessivo.

Soltanto gli oneri sociali sarebbero aumentati del 3,9%, anche se un po’ meno nell’industria, rispetto al terziario. Il vecchio sindacalista, però, sa bene che le aziende italiane compensano ampiamente tali incrementi con l’utilizzo del “lavoro nero”. Che, come è noto, è esente da tali costi a carico dei datori di lavoro.

Una spiegazione preoccupante
Alcuni economisti danno una spiegazione relativa agli anni post-covid. I provvedimenti statali a sostegno dell’occupazione, secondo taluni, avrebbero indotto le imprese a “manualizzare” maggiormente la produzione. Ma il lavoro manuale è meno produttivo e più costoso di quello effettuato con i macchinari. Il fenomeno si sarebbe incrementato con la crisi energetica, che ha penalizzato soprattutto il lavoro alle macchine.

Tale spiegazione, se reale, sarebbe preoccupante con il ritorno dei prezzi delle materie prime a livelli pre-crisi. Con il cessare delle facilitazioni le aziende sarebbero indotte a licenziare per investire nuovamente in macchinari. Nel frattempo, le aziende estere concorrenti hanno avuto un triennio a disposizione per superarle in innovazione tecnologica. Con tutte le conseguenze per quanto riguarda la produttività e il Pil dell’Italia nei prossimi anni.

Da: www.inliberta.it